Projet Coménius


Traduction italienne


CLAUDE MARTI SALAZAR




L’OLIVO
O LA
RISURREZIONE
DELL’ETERNO







PIERRE FRANÇOIS LOUBATIÈRES



Gli alberi, lui li amava
Da sempre: nelle prime
pieghe della sua memoria c’erano grandi
foglie di platano che danzavano nella
luce di mezzogiorno, rami
di pino fruscianti sotto il vento di cers
e il profumo delle acacie in fiore
donato alle lunghe serate di maggio
striate di rondini.


Più tardi piccolo uomo correndo
lungo i sentieri, aveva ampliato
il campo delle sue amicizie.
Aveva assaporato le more color porpora
del gelso nero.


Aveva conosciuto la tenerezza del fico
che dona per due volte i suoi frutti e piange
lacrime di lattice bianco alla minima ferita.


Si era costruito dei nidi d’aquile sui rami più grandi
degli alberi di noce.


Aveva sagomato degli archi di nocciolo
e riempito la sua faretra di frecce
di frassino indurite dal fuoco.


Aveva lanciato delle piroghe
di corteccia di platano
sulle acque di un torrente.


Aveva fumato delle acri sigarette di tabacco
di sambuco e aveva poi tossito liberamente
dietro le complici fronde di un bosso gigante.


Gli succedeva anche di parlare, agli alberi!
Il cipresso in fondo al giardino
o l’olivo in fondo al campo
raccoglievano le sue confidenze,
quelle che né genitori né compagni di scuola
devono sentire.


Posava le sue mani sul tronco scelto
e le sue grandi pene lasciavano il suo cuore di bambino
per scivolare nel cuore legnoso dell’albero:
la morte del gattino tigrato, lo zero in matematica,
la partenza dell’innamorata portata lontano dai suoi genitori ……..
il bosco vivente prendeva la sua parte di dolore.
Ripartiva allora con un passo diverso,
alleggerito da questa condivisione fraterna delle sofferenze.


Ad ogni angolo della sua vita era piantato un albero
che montava per sempre di guardia nella siepe dei ricordi.
Un tamarindo per La Franqui sul Mediterraneo,
un arancio per Castellon de la Plana,
un eucalipto per Algeri,
un mango per Cuba, un olivo per Minerva,
un pino nero per Amburgo, un cedro per Beirut,
un nocciolo per Cervione, un pino a ombrello per Roma
un carrasca - un leccio - per la Fueva dei suoi antenati aragonesi …….

Era infine arrivato all’età matura.
L’età matura, per un uomo, è quando
è divenuto il frutto maturo della propria
esistenza , ricca di lavoro, di incontri,
di famiglia, di tentativi riusciti, di incontri
mancati. Essendo venuto per lui il momento
di gestire il tempo della sua pensione, intervallo di libertà
sorvegliata permesso dalla società prima
del raccolto finale.


Lungo gli abituali itinerari che si era tracciato a
metà strada tra la sua casa e l’orizzonte,
gli alberi lo attendevano.
L’uomo li salutava tutti con una parola,
un gesto della mano, via via che li incontrava.


Prima i platani del viale, poi le piante di fico
che non amano allontanarsi dalle case,
i mandorli in cima alle vigne, i protettivi cipressi,
i pini domestici dai dolci aghi, gli olivi saggiamente allineati
all’interno di muretti a secco.
L’uomo sapeva che discendevano - come lui stesso - dalla prima
cellula nata nel “brodo” dei primi oceani e innamorata
proprio come lui - dei raggi del sole.

Platano Mandorlo Amelia Cipresso di Provenza. Cipresso di Lambert Pino domestico Fico, Olivioulivié


Egli ammirava la loro apparente immobilità
sotto il cielo mentre, in realtà, erano degli infaticabili
viaggiatori…….
Viaggiatori, gli alberi? Proprio così.
Il mandorlo e l’olivo avevano attraversato il Mediterraneo con
i Focesi, erano i cofondatori della città di Marsiglia!
Il fico? Originario dell’Asia Occidentale, un artista della dolcezza
celebrato dagli scribi del faraone, l’albero divino della Terra promessa,
passato ad ovest con i marinai greci.
Il platano? Un turco naturalizzato francese nel XVI.
Il pino domestico?

Un Libanese. Il Cipresso? Un Irano-siriano sbarcato sulle nostre coste
con un passaporto greco-romano! Tutti si erano diffusi a piacimento sul
mare latino. Poi, avevano conquistato l’entroterra, semi portati dai carretti
dei mercanti, attaccati ai becchi degli uccelli, trasportati dal vento. Senza questi
stranieri, le linee curve delle nostre colline non avrebbero la stessa maniera
di catturare la luce, monotono sarebbe il nostro cibo, più miseri il nostro sapere e
la nostra percezione del mondo, diverso il nostro modo di guardare il cielo.


L’uomo che amava gli alberi provava ad immaginare le vallate,
i pendii dei monti, gli altopiani, le pianure ricoperti dalle sole
piante indigene come frassini, ontani, querce, noccioli, tigli……
E ringraziava gli dei alati d’aver messo nel cuore degli uomini e
degli alberi la necessaria passione per il viaggio.


Di tutti questi immigrati, gli olivi erano i suoi preferiti. Uno di questi aveva
attaccato le sue radici al riparo di un affioramento calcareo, su un
versante soleggiato dove si era stabilito da secoli, l’aveva avvolto
  • con tutto lo spessore del suo tronco e la potenza dei suoi rami.


Al villaggio, tutti lo conoscevano, gli erano affezionati: sicuramente
aveva conosciuto i capostipiti dei Fabre, dei Pagès, dei Teisseire, degli
Astruc e i Pastre e i Vialade e i Cros! Era il testimone silenzioso che
guardava sfilare le schiere effimere delle generazioni umane, che ne
autenticava la storia segnandola con il sigillo della sua immutabile vita.

L’Eterno, è così che era stato chiamato. Si raccontava che
fosse sopravvissuto ai coltellinai di Simone di Monforte, alle
torce della Lega Santa, all’immensa avanzata del vitigno
aramon…….


L’uomo che amava gli alberi si fermava ogni giorno davanti all’Eterno,
posava le sue mani sul tronco del colosso - ogni volta - con l’allegra
sensazione di dare del tu all’eternità.

Ed ecco che una terribile mattina blu-metallo,
una fredda mattina di novembre, ancora prima
di arrivare al sentiero che porta all’Eterno, ebbe
il presentimento di un dramma definitivo.
Affrettò il passo.


Laggiù, sotto il costone roccioso, l’olivo non era più
che uno scheletro carbonizzato che si innalzava in
mezzo a una pozzanghera di cenere……
Un debbio controllato male, una passeggera negligenza umana
aveva ucciso l’Eterno!


L’uomo se ne andò in fretta senza ritornare.
L’inverno, la primavera, l’estate, l’autunno
lo videro ancora seguire itinerari diversi,
lontani dal rogo dove il tempo limitato
si era preso la rivincita.

Un giorno tuttavia, decise di far violenza a sé stesso,
di riprendere il sentiero “di prima”, quello che l’aveva
visto così sovente meditare davanti all’Eterno.
L’oscuro desiderio di rinunciare, di interinare una volta
per tutte la morte dell’albero che anche lui aveva finito per
credere immortale.
Si fermò davanti al gigante folgorato, meccanicamente si
mise ad accarezzare un ramo dalle foglie carbonizzate.


E ne ebbe improvvisamente, sotto le sue dita,
come una tenera bordatura di freschezza.
Aprì la mano: lungo il ramoscello, tra le foglie
accartocciate, dei germogli appena spuntati
allungavano il loro lembo minuscolo verso la
luce….


L’uomo che amava gli alberi non aveva che da
ridiscendere verso il villaggio per annunciare
la bella notizia: lassù, sul versante soleggiato,
l’Eterno riprendeva vita.
Per l’eternità, non ne aveva mai dubitato.



Claude MARTI-SALAZAR
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